Antropizzazione delle aree montane, valanghe e diritto penale

Antropizzazione delle aree montane, valanghe e diritto penale

 

di Stefania Rossi

 

Il forte rischio di scaricamenti nevosi che ha interessato l’arco appenninico in questo inizio 2017 impone una rinnovata riflessione sui fenomeni valanghivi, collegati all’aumento dell’antropizzazione delle aree montane, soprattutto per lo svilupparsi del turismo invernale.

L’apparato sanzionatorio penale contempla due norme: l’art. 426 c.p. (che punisce con la reclusione da cinque a dodici anni chi dolosamente determina la caduta di una valanga) e l’omologa fattispecie colposa di cui all’art. 449 c.p. (che prevede la reclusione da uno a cinque anni). È il combinato disposto di questi due articoli che consente di identificare l’imputazione per “valanga colposa”, reato di pericolo (astratto) posto a tutela della pubblica incolumità, il cui accertamento giudiziale importa non poche difficoltà.   

L’attuale contesto normativo italiano non offre, infatti, una definizione di “valanga” e pertanto risulta centrale l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale del termine; in proposito, sono stati elaborati alcuni indicatori sintomatici cui ricollegare il giudizio di pericolosità: per valanga non si intende, infatti, qualsiasi scaricamento nevoso, ma solo quello che sia di notevoli dimensioni e manifesti una straordinaria potenza distruttiva (per quantità di neve e per velocità di caduta)  tale da porre in pericolo un numero indeterminato di persone; non è, quindi, necessario che il distacco della massa nevosa comporti effettivamente morti, feriti o la distruzione di cose, ma è sufficiente che si determini una “minaccia” di questo genere (tuttavia, nel caso in cui tutti gli eventi tipizzati siano coincidenti la fattispecie di cui all’art. 426-449 c.p. concorrerà con quelle contemplate negli artt. 589 e 590 c.p., in quanto la morte o le lesioni non integrano né un elemento costitutivo, né una circostanza aggravante del delitto di disastro colposo, ma titoli autonomi di reato). Sotto il profilo oggettivo, il giudizio di pericolosità deve necessariamente ricollegarsi alla condotta posta in essere e per questo andrà preliminarmente accertato il rapporto di stretta derivazione causale tra l’azione o l’omissione dell’agente e il fenomeno descritto.

Per quanto attiene, invece, ai criteri che sono stati utilizzati dalla giurisprudenza per verificare l’esistenza del profilo soggettivo (addebito per colpa, generica o specifica, in capo all’autore del reato) ricordiamo l’omessa lettura del bollettino nivometeorologico, l’incapacità di interpretarlo correttamente, il mancato rispetto delle indicazioni ivi contemplate, l’imperizia nella valutazione del contesto ambientale e nella dotazione della strumentazione anti valanga.

Orbene, se è vero che il sovraffollamento turistico in aree montane è una realtà di fatto che coinvolge troppo spesso persone non adeguatamente preparate ed attrezzate, è altrettanto certo che l’incidenza di fenomeni valanghivi risulta in costante aumento, in considerazione dei mutati fattori climatici che importano precipitazioni nevose abbondanti, anche a bassa quota, con repentini rialzi termici.

In presenza di simili accadimenti, sussumibili nell’alveo della fattispecie penale descritta, la procedibilità d’ufficio che ne accompagna la verificazione comporta l’automatica apertura di procedimenti penali, in relazione ai quali la complessità degli accertamenti e i tempi della giustizia non sono rassicuranti e le conseguenze sanzionatorie, in caso di condanna, pesanti.

Significativo il dato secondo cui molte delle archiviazioni dei procedimenti penali per valanga colposa sono state motivate dal fatto che i distacchi non erano avvenuti in “zone antropizzate” (cioè quelle in cui si soffermano più persone non individualmente identificate); in definitiva, le valanghe provocate fuori pista, lontano da aree sciabili e in zone isolate, non sarebbero penalmente rilevanti, stante il preciso bene giuridico (“incolumità pubblica”) tutelato.

E’ evidente, per contro, che la messa in pericolo del bene giuridico descritto è concepibile solo rispetto a valanghe che si realizzano all’interno di aree sciabili ovvero a causa di “fuori pista” compiuti in prossimità di piste battute.

In realtà, proprio con riferimento a tale aspetto si pongono delle criticità interpretative e una, più generale, necessità di ridefinire le “zone franche”, in quanto la percentuale più significativa di scaricamenti nevosi si verifica, oggi, proprio nell’esercizio di attività sportive in fuori pista, luogo di elezione di un numero crescente di amanti della montagna più o meno esperti (sci alpinisti, ciaspolatori e free raider che spesso utilizzano l’eliski per raggiungere aree alpine impervie). 

Nell’identificazione di una zona antropizzata, quindi, non ci si può più limitare alla mera presenza di una pista limitrofa (percorsa o meno in quel momento da un numero indeterminato di persone), di rifugi, sentieri o strade, ma si deve tener conto della effettiva percorribilità del luogo da parte di altri soggetti e del suo potenziale affollamento.

Chi provoca una valanga in un area di fatto antropizzata (nella quale, quindi, si può prevedere la contestuale presenza di più individui) è punibile per aver posto in pericolo, anche solo astrattamente, l’incolumità pubblica; per contro, non vi saranno conseguenze penali, limitatamente all’imputazione per valanga colposa, se lo scaricamento investe una zona in cui si trova una singola persona o un unico gruppo di sciatori e non soggetti terzi identificati o identificabili.  

In relazione, poi, alla violazione della specifica segnaletica di pericolo valanghe, vale a dire di quei cartelli posti a bordo pista (quindi in zona sicuramente antropizzata) in cui compare il palmo di una mano aperta con la scritta “ALT – PERICOLO VALANGHE”, si ritiene che sia ravvisabile una colpa specifica sotto il profilo della violazione di un “ordine”; per l’ordinamento italiano, infatti, l’ordine può provenire anche da un’autorità privata (ad esempio il gestore di un’area sciabile) quando eserciti un’attività pericolosa e sia responsabile della sicurezza degli utenti.

Naturalmente dovrà trattarsi di un’indicazione comprensibile circa la presenza di un “pericolo attuale” di valanga, ma se per caso la segnaletica non corrisponde alla situazione in essere sarà lo sciatore a doversi informare consultando il bollettino valanghe per evitare ogni addebito colposo.

Analoghe considerazioni possono essere spese nel caso in cui il cartello di divieto sia collocato in una zona fuori pista: la giurisprudenza che si è pronunciata finora sul punto (rintracciabile nel blog) ha evidenziato come la presenza di un cartello chiaramente tradotto in quattro lingue fosse sufficiente per imputare la colpa specifica in capo a chi non lo aveva rispettato, trattandosi di un divieto giuridico e non di una semplice informazione.

In attesa di dati aggiornati per il 2016-2017 (che rifletteranno le critiche condizioni meteo registrate in Centro Italia in questi mesi invernali), sappiamo che la stagione 2015-2016 è stata caratterizzata sulle Alpi da solo 75 vittime a causa di valanga, rispetto alle oltre 100 di media, ma il basso numero censito è dipeso dalle scarse precipitazioni nevose e dai pochi sinistri verificatisi. Nel nostro Paese ce ne sono stati 40 e le vittime sono state 15; colpisce però l’indicazione dei soggetti coinvolti: 13 sci alpinisti, 1 sciatore fuoripista e 1 alpinista. Oltre i confini nazionali, nell’arco della medesima stagione, ci sono stati 21 decessi in Francia, 25 in Svizzera, 14 in Austria e anche in questi casi il maggior numero di vittime ha riguardato sci alpinisti (47) e sciatori fuori pista (15)[1].

Si tratta di dati che confermano come il luogo del distacco si collochi sempre più spesso in aree alpine libere (non antropizzate secondo lo schema classico) e che identificano negli appassionati del fuori pista i soggetti più “esposti”, sia al pericolo valanga, che al rischio di venir imputati -se incolumi- nel connesso procedimento penale volto ad accertare la causa dello scaricamento.

Dal complesso quadro, qui riassunto brevemente, emergono due fondamentali esigenze: se, da un lato, serve certezza nel delimitare il penalmente rilevante, dall’altro, si auspica una maggiore responsabilità del singolo nell’orientare la propria condotta al fine di scongiurare pesanti conseguenze giuridiche e, sotto quest’ultimo profilo, la raccolta di dati statistici e l’indagine giuridica concernente gli incidenti causati da valanghe sono attività estremamente rilevanti, che consentono non solo di monitorare gli aspetti puramente ambientali, ma anche di analizzare i modelli comportamentali dei frequentatori della montagna invernale (sci alpinisti e free rider in primis) per attuare delle efficaci strategie di prevenzione e soccorso[2].



[1] http://www.arpa.veneto.it/temi-ambientali/neve/dati/incidenti-da-valanghe. Per un monitoraggio sulle ultime stagioni invernali si rinvia anche al sito http://www.aineva.it 

[2] Proprio partendo da questi temi, nell’ottica di un’indagine multidisciplinare, si svilupperà lo studio nell’ambito del progetto biennale di ricerca «Prevenzione dei sinistri in area valanghiva: attività sportive, aspetti normativo-regolamentari e gestione del rischio», coordinato per gli aspetti giuridici da Stefania Rossi e finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento. 

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