CORTE DI APPELLO DI MILANO; sentenza 29 settembre 2009

CORTE DI APPELLO DI MILANO; sentenza 29 settembre 2009, Pres. Lapertosa; Rel. Spina; Imp. F. F. Conferma G.u.p. Trib Sondrio 10 marzo 2005, n. 1519.

Responsabilità penale – Omicidio colposo – Valanga colposa – Sci alpinismo – Colpa – Sussistenza – Condanna

Sussiste la responsabilità per i reati di valanga colposa e omicidio colposo in capo allo sci alpinista che, effettuando l’ascesa lungo la linea di massima pendenza di un canalone con gli sci ai piedi, determina la rottura del manto nevoso ed una valanga di piccole dimensioni, la quale dà origine ad una valanga di grosse dimensioni, che investe un gruppo di dodici sci-alpinisti provocando la morte di tre di essi (nel caso di specie il bollettino nivometeorologico segnalava la probabilità di distacco valanghe ed era quindi raccomandabile, alla luce di detto bollettino, per la presenza di neve fresca e per la temperatura atmosferica relativamente elevata, una risalita diversa da quella lungo la linea verticale).

App. Milano, 29/09/2009

 

OMICIDIO COLPOSO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D’APPELLO DI MILANO

SEZIONE PENALE

Composta dai Signori:

  1. Dott. Flavio Lapertosa – Presidente –

  2. Dott. Fabio Paparella – Consigliere –

  3. Rosario Spina – Consigliere relatore – ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa del Pubblico Ministero

contro Fa.Fa. nato (omissis) – Appellante – libero presente residente a Sondrio – Via (omissis)

Imputato di: Artt. 81 cpv. c.p., 113 – 426 – 449 c.p., 113 – 589 co. 1 e 3 c.p. commesso (omissis)

Difeso da: Avv. An.Sc. Foro di Sondrio Avv. S.Pu. Foro Milano

Parte civile:

Ba.An. non appellante

Difensore Avv. Sa.Sc. Foro di Milano Appellante

Avverso la sentenza del GIP Tribunale di Sondrio n. Reg. Gen. 1519/2003 del 10/03/2005 con la quale veniva condannato alla pena di:

anni 1, mesi 6 di recl. generiche doppi benefici risarcimento danni provvisionale e rifusione spese alla p.c.

per i reati a) cooperazione colposa in valanga, b) cooperazione colposa in omicidio colposo aggr., ritenuta la continuazione

PP. OO. Ba.Al., Ce.Ma., Gr.Ma.

Imputati

  1. del delitto di cui agli artt. 113, 426 449 c.p. , perché, nell’esercizio della pratica dello sci – alpinismo, per colpa (imprudenza e negligenza), in cooperazione tra loro, cagionavano la caduta di una valanga in località (omissis) a m. 2.215 circa s.l.m., effettuando, pur esperti sci – alpinisti, l’ascesa lungo la linea di massima pendenza verso il (omissis), guidando – Fa.Fa. alla testa del gruppo e Fa.Br. in coda – due giovani del tutto inesperti della disciplina dello sci – alpinismo, nonostante che:

– nel bollettino nivometeorologico per le Alpi e le Prealpi lombarde n. (omissis) del g. (omissis), valido sino (omissis), della Ar. di Bormio fosse segnalala “la probabilità” di distacco di valanghe già “con debole sovraccarico (passaggio di un singolo sciatore)” con indice di pericolo di caduta valanghe “Tre Marcato”;

– fosse raccomandabile, alla luce di detto bollettino e anche per la presenza di neve fresca in notevole quantità (50/60 cm.) e per la temperatura atmosferica relativamente elevata (- 1 C a – 2 C circa), salire non direttamente lungo la verticale del canalone verso il (omissis) ma con itinerario ad arco lungo la dorsale Est – Nord – Est che dalla località Casera di Olano porta al (omissis) come consigliato in presenza di dette condizioni nivometeorologiche anche dalla letteratura tecnica in materia: (v.”Itinerari di sci alpinismo e di escursionismo invernale nel Pa.” della guida alpina An.Sa. edito a cura della Comunità Mo. di Morbegno, p. 19 – 20 e “Gu.” di Ma.Va. edito a cura del Pa.Re., p. 51).

In particolare Fa.Fa., raggiunto il punto “deposito di sci” sulla sella tra il Pi.Ol. e il Pi., in luogo di togliersi gli sci e procedere a piedi verso la vetta del Pi., proseguiva, senza che il padre Br., che aveva di fatto assunto il ruolo di guida del gruppo, glielo impedisse, con gli sci ai piedi, nonostante l’elevata pendenza (oltre 35), zig – zagando verso la vetta su neve fresca non tracciata, per il che provocava nell’ultima virata a destra, anche a causa del sovraccarico supplementare costituito da esso sciatore su un accumulo fresco di neve soffiata dai venti, la rottura del manto nevoso sottostante e scivolava verso valle causando una prima valanga di dimensioni contenute che a sua volta provocava, subito dopo, il distacco di una valanga di grosse proporzioni che investiva tutto il fronte sottovento lungo il canalone e che si abbatteva a grande velocità su un gruppo di 12 sci – alpinisti che si trovavano a vallo, condotti dalla guida alpina De.Ma., provocando la morte, per seppellimento da neve, di Ba.Al. di anni 36, di Ce.Ma. di anni 13 e di Ge.Ma. di anni 40 nonché il ferimento di altri 7 escursionisti.

  1. del reato di cui agli artt. 113, 589 c. 1 e 3 c.p. perché, in cooperazione tra loro, ponendo in essere le condotte di cui al capo precedente, cagionavano per colpa (imprudenza e negligenza) la morte per soffocamento da seppellimento nella massa nevosa, avvenuta sul posto poco dopo l’evento valanghivo, di Ba.Al. di anni 36, di Ce.Ma. di anni 23 e di Gr.Ma. di anni 40.

Svolgimento del processo

Br.Fa. e Fa.Fa., rispettivamente padre e figlio, venivano giudicato come rito abbreviato dal Gup di Sondrio per i reati di cui agli art. 113, 426 e 449 c.p. (capo A) e artt. 113, 589 co. 1 e 3 c.p. (capo B) così come contestato in rubrica. Gli stessi erano accusati di aver provocato la caduta di una valanga in località Pi. e di avere cagionato la morte per soffocamento da seppellimento nella massa di neve di Al.Ba., Ma.Ce. e Ma.Gr. I fatti erano avvenuti sul Pi. del comune di Rasura il (omissis).

In particolare gli stessi imputati, abili sci – alpinisti, erano accusati di aver effettuata un’ascesa con due giovani inesperti in una linea di massima pendenza verso il Pi., nonostante nel bollettino nivometereologico fosse segnalata la probabilità di distacco di valanghe già con debole sovraccarico (passaggio di un solo sciatore) e fosse comunque segnalato, per la neve fresca, di non salire lungo la verticale del canalone ma con itinerario ad arco lungo la dorsale Est – Nord – Est. In particolare Fa.Fa., raggiunto il punto “deposito di sci” sulla sella tra il Pi. e il Pi.Ga., aveva proseguito con gli sci ai piedi, invece che a piedi, procedendo a zig zag, provocando nell’ultima virata a destra, anche a causa del sovraccarico supplementare costituito dalla propria persona su un accumulo di neve fresca, la rottura del manto nevoso sottostante, scivolando verso valle e provocando una prima valanga che a sua volta ne provocava un’altra di grosse dimensioni.

Il Gup, con sentenza in data 10/3/2005, dichiarava Fa.Fa. colpevole dei reati ascrittigli e, ritenuto il concorso formale, concesse le attenuanti generiche e applicata la diminuente per il rito, lo condannava alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, oltre alle spese, condannandolo altresì al risarcimento dei danni in favore della parte civile An.Ba. da liquidarsi in separata sede, con una provvisionale di Euro 20.000,00, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla stessa sostenute.

Il Gup assolveva Br.Fa. dai reati ascrittigli per non aver commesso il fatto. Il Tribunale individuava nella condotta dell’imputato un legame causale con l’evento e censurava il suo comportamento, negligente ed imprudente, per aver sciato in zona contrassegnata da pericolo di valanghe “tre marcato” ed avere attraversato il canalone con gli sci piuttosto che a piedi.

Proponeva appello la difesa di Fa.Fa.; la Corte d’Appello di Milano con sentenza in data 9/3/2007 assolveva l’imputato dai reati ascrittigli perché il fatto non costituisce reato.

In particolare la Corte rilevava che rilievi di negligenza dovevano essere mossi nei confronti di tutti i protagonisti della vicenda e che comunque era certo che la valanga era stata determinata da una slavina primaria di dimensioni ridotte; al riguardo osservava che secondo il dr. Pe., geologo responsabile del centro nivo – meteorologico della Lombardia, una valanga come quella in oggetto era probabilmente determinata da una bolla d’aria compressa negli stati deboli del lastrone nevoso, che nel tentativo di fuoriuscire, si espandeva lateralmente in modo concentrico fino alla rottura, e che il fenomeno poteva essere innescato anche a distanza notevole dal luogo della valanga; il secondo giudice confermava che tale assunto non era stato totalmente escluso dai consulenti del PM.

Per la Corte non era certo che proprio il sovraccarico supplementare costituito dal Fa. avesse provocato la rottura del manto nevoso, anche perché nella zona vi era una pluralità di gruppi di persone sia a valle che a monte del luogo di insorgenza della prima valanga.

Proponevano ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello e la parte civile, chiedendo l’annullamento della sentenza.

La Suprema Corte, con sentenza in data 10/12/2008, annullava la sentenza impugnata e rinviava per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.

La Corte rilevava come la sentenza fosse viziata da travisamento della prova con riferimento agli esiti della consulenza tecnica del PM e delle deposizioni, e da difetto di motivazione in relazione alla valutazione del nesso causale.

Ora, in particolare i CT del PM avevano riferito che la valanga di lastroni di neve era stata provocata con altissima probabilità dal sovraccarico del Fa. in ascesa su un accumulo di neve soffiata, sovraccarico che aveva provocato la rottura dei lastroni, innescando la valanga primaria e poi quella secondaria. La Corte di merito aveva ritenuto la possibilità che tale tipo di valanga potesse essere determinato da una bolla d’aria compressa ma – secondo la Corte di Cassazione – essa non aveva tenuto in alcun conto le deposizioni di numerosi testi che avevano riferito di aver visto il Fa. sprofondare sul manto nevoso mentre la neve si sbriciolava con distacco di blocchi, e lo stesso imputato aveva ammesso che sotto di lui si era distaccata della neve. In tal modo, sosteneva il giudice di legittimità, la Corte di merito aveva dato credito ad una ricostruzione del tutto ipotetica, ed era incorsa in difetto di motivazione ed in particolare in contraddittorietà in tema di valutazione del nesso causale. Faceva rilevare la Suprema Corte che a fronte di una spiegazione causale logica, scaturente dalle risultanze di causa, la prospettazione di un’ipotesi alternativa non potesse esser affidata ad una indicazione meramente possibilista, ma dovesse connotarsi da elementi di concreta probabilità, cose che non era rinvenibile nella fattispecie.

All’odierna udienza le parti concludevano come da verbale. Motivi della decisione

Con l’atto di appello proposto, oggi nuovamente all’attenzione di questa Corte, la difesa ha in primo luogo contestato la sussistenza del reato di valanga colposa, che presuppone la messa in pericolo di un numero indeterminato di persone, sulla base di una valutazione svolta in via astratta; qualora ciò non accada (la valanga era finita in un vallone selvaggio) – ha sostenuto l’appellante con il gravame – il reato contestato non è configurabile.

L’appellante ha censurato il fatto che il primo giudice (circostanza peraltro accolta poi con la sentenza di secondo grado) avesse escluso altre possibili cause quali il transito a valle degli sciatori guidati dalla guida alpina De., il cui decesso peraltro aveva reso monco il procedimento (e di cui in subordine chiedeva che venisse affermato il concorso di colpa), e la prospettazione della “bolla d’aria compressa”. Non sussiste pertanto per la difesa il nesso di causalità tra la condotta e l’evento.

Inoltre – ha sostenuto ancora l’appellante con l’atto di gravame – le circostanze di fatto non avevano dimostrato una negligenza del Fa. nel proseguire a piedi, anche perché il c.d. luogo di deposito sci non era ben definito. Ed ancora, secondo l’appellante, il distacco di valanghe in settimana andava considerato come segnale positivo e significativo di un minore rischio futuro.

In ogni caso la difesa ha chiesto eh venga stabilito il concorso di colpa del De., la guida alpina alla testa del gruppo di cui facevano parte gli sciatori deceduti, con ovvie ripercussioni sulla pena inflitta e sulle statuizioni civili. In ogni caso ha lamentato l’eccessività della pena inflitta.

In ordine al primo motivo, la difesa ha contestato la sussistenza del reato di valanga colposa ( artt. 426e 449 c.p. ), ritenendo che tale figura criminosa presupponga che venga messo in pericolo un numeroindeterminato di persone, sulla base di una valutazione svolta in via astratta; qualora ciò non accada (la valanga era finita in un vallone) il reato non sussiste. Ora va ricordato che per valanga deve intendersi, come ha giustamente sottolineato il giudice di prime cure in sentenza (p. 21 – 22) “una massa di neve che si distacca dalla montagna e, crescendo progressivamente, precipita in un punto più basso, sempre che abbia le caratteristiche del disastro, ossia tale da mettere in pericolo un numero indeterminato di persone”.

Nella fattispecie la perizia in atti ha dimostrato come la massa di neve che è partita dal Fa. si fosse ingigantita progressivamente, raggiungendo dimensioni notevoli, e avesse raggiunto la velocità di 100 km/ h., trascinando e travolgendo ogni ostacolo.

In merito alla prospettazione di tale motivo d’appello, va ricordato come per le ipotesi colpose di disastro contemplate dall’art. 449 c.p. valga la medesima presunzione assoluta di pericolo postulata per le ipotesi dolose di cui all’art. 426 c.p. , di tal che per la loro integrazione non è necessario il requisito della concreta pericolosità per l’incolumità pubblica (Cass. Sez. V, 12/12/1989 n. 11486, Ma.). Peraltro l’elemento di pericolo per la pubblica incolumità è estraneo all’art. 449 c.p. , il quale ricalca, nell’ambito della colpa, le due distinte ipotesi dei commi primo e secondo dell’art. 423 c.p. (Cass. Sez. IV 74/127243). Ma è proprio il caso concreto a smentire la tesi della difesa.

Nella specie si è assistito ad una massa di neve di dimensioni ragguardevoli, che ha investito un gruppo di dodici persone, uccidendone tre e ferendone sette; ora ritenere che tale fenomeno non configuri un “disastro”, così come deve intendersi nel senso delle due norme, è francamente un azzardo. Osserva pertanto la Corte come il reato di cui al capo A) sussista a tutti gli effetti.

Venendo alle ulteriori questioni, va rilevato come questo Collegio giudichi in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione e la decisione del giudice di legittimità fissi in modo inequivocabile il perimetro di tale giudizio di rinvio.

Ed invero, avendo la Suprema Corte annullato la sentenza della Corte d’Appello per travisamento della prova in ordine al nesso di causalità, va ritenuto che la prova stessa sia stata letta in misura distorta. Il principio di diritto fissato preclude a questa Corte di merito di ripercorrere negli stessi termini della sentenza cassata le questioni proposte; in caso contrario, la conseguenza sarebbe il non accoglimento del dictum del giudice di legittimità.

E tuttavia è necessario intenderci sui termini del perimetro in cui il Collegio deve muoversi.

La Suprema Corte ha testualmente detto che “la prospettazione di una spiegazione causale alternativa e diversa, capace di inficiare o caducare quella conclusione (cioè quella della sentenza di primo grado) non può essere affidata solo ad un’indicazione meramente possibilista, ma deve connotarsi di elementi di concreta probabilità, di specifica possibilità, essendo necessario cioè che quell’accadimento alternativo, ancorché pur sempre prospettabile come possibile, divenga anche nel caso concreto, hic et nunc, concretamente probabile alla stregua, appunto, delle acquisizioni processuali”.

Orbene, è pur vero che una diversa valutazione del nesso di causalità possa sempre essere operata dal giudice di rinvio, ma solo nei limiti fissati dal principio di diritto sopra enunciato. Si tratta allora di vedere quali elementi certi siano acquisiti in atti che possano essere diversamente valutati.

Come è stato ricordato dalla Corte d’Appello nella sentenza cassata, il dr. Pe., del centro nivo – meteorologico dell’Ar., ha riferito che nel caso di valanghe di lastroni, la pressione esterna provoca una sorta di “bolla d’aria” che si espande lateralmente, e che tale fenomeno può essere innescato anche a notevole distanza dalla valanga stessa; la presenza sul luogo di molte altre persone era idonea – per il giudice di secondo grado – ad insinuare un dubbio ragionevole sull’attribuibilità al solo Fa. della slavina. I consulenti del PM, pur ritenendo altamente improbabile tale ipotesi, non l’hanno totalmente esclusa. Questa è tuttavia una via non più percorribile, atteso il dictum della Corte di legittimità.

Ed invero, l’unico dato assolutamente pacifico è che ad un certo punto il Fa., giunto sulla cresta del Mo., non aveva abbandonato gli sci, ma era andato a “zig zag”, caricando con gli sci il pendio nevoso. Molti testi (Gr.Ol., Ed.Ga. ed altri) hanno riferito di aver visto il Fa. sprofondare sul manto nevoso, che si sbriciolava sotto il suo peso, e che tale rottura aveva provocato un distacco di blocchi di neve. In sostanza è stato accertato – e l’apporto dichiarativo dei testi nonché le stesse ammissioni dell’imputato rendono il dato incontestabile – come Fa. avesse provocato la slavina originaria, costituita dalla rottura del manto nevoso sotto il suo peso; questa, a sua volta, ha causato la valanga secondaria che ha investito un gruppo di sciatori, tra cui vi erano Al.Ba., Ma.Ce. e Ma.Gr., che hanno perso la vita.

Questi sono i dati certi della sentenza; tutti gli ulteriori apporti di valutazione e le ulteriori questioni di carattere tecnico sulle possibili cause della slavina sono relegati al rango di ipotesi e come tali, secondo il principio di diritto sopra enunciato, non percorribili.

E poiché agli atti, anche tenuto conto delle deduzioni della difesa, non emerge nulla di concretamente probabile che possa consentire una lettura della dinamica dei fatti e, in definitiva, del nesso di causalità

diversa rispetto a quella contenuta nella sentenza di primo grado, – pena il travisamento della prova, già censurato dal giudice di legittimità – ne deriva che la problematica relativa al nesso causale deve essere definitivamente risolta proprio nel senso della sentenza del Gup del Tribunale di Sondrio secondo il principio stabilito dalla Suprema Corte. Così decisa una delle due principali questioni, appare ultronea la richiesta di valutazione di altre condotte (quali quella ad esempio del De., come richiesto dalla difesa), atteso che le stesse si porrebbero comunque in termini di estraneità di fronte all’evento, secondo il nesso di causalità così come ricostruito. Il sostenere, come fa la difesa nell’atto di gravame, che potesse essere stato il De. a provocare la c.d. “bolla d’aria” è, infatti, una semplice ipotesi, sul valore della quale nell’economia di questo giudizio di rinvio si è già ampiamente discusso. Nessun concorso di colpa del predetto sarebbe pertanto concettualmente ipotizzabile, in considerazione comunque dell’assenza del nesso di causalità.

Ed allora resta da esaminare l’altra questione di rilievo che connota la vicenda e cioè quella della colpa dell’imputato.

Va subito detto che le contestazioni mosse al Fa. si muovono nell’ambito della colpa generica che, come tale, va valutata a seguito degli apporti dichiarativi presenti in numero rilevante in atti; l’accertamento della stessa, pertanto, non va demandato a valutazioni di carattere tecnico, non essendo contestati profili di colpa specifica. Trattandosi quindi di colpa generica, il metro di giudizio per valutare il concreto comportamento adottato nella vicenda dal prevenuto è quello della normale “diligenza del buon padre di famiglia”.

Il comune denominatore di tutti i testi (Ci., Ra., Ga. ed altri ancora) è lo stupore circa le modalità di ascesa sul Pi.; quelle modalità violavano le regole comuni di esperienza in materia di alpinismo. Ci. ha riferito testualmente (f. 110): “Siamo rimasti stupiti da quella salita in quanto nessuno solitamente sale da quella parte, anche perché è materialmente impossibile raggiungere la vetta con gli sci”.

Ci. ha gridato all’indirizzo dell’imputato e degli altri tre che stavano salendo con gli sci: “Cosa fate?” ed ha aggiunto che “il primo dei quattro (il Fa.), non alle prime armi in questa pratica sportiva … iniziava a salire in diagonale: alla quarta – quinta curva ha fatto partire la slavina”.

I testi Mo., Ma. e Ai. hanno riferito le stesse circostanze, aggiungendo di aver sentito il Ci. gridare all’indirizzo del Fa.

Gi.Lo., sentito a s.i.t., ha manifestato il proprio stupore per tale comportamento “visto che la pendenza era elevata e la neve era ventata quindi assolutamente insicura” (f. 108). E che della pericolosità di una tale condotta il teste fosse assolutamente convinto è dimostrato proprio dal comportamento tenuto dal medesimo; egli infatti, che stava salendo verso il Mo., ha lasciato gli sci ed ha proseguito la propria ascesa a piedi.

In sostanza, il dato certo è che tutti coloro che hanno assistito ai momenti antecedenti la valanga hanno affermato che quella condotta del Fa. era assolutamente imprudente, secondo uno standard conoscitivo univoco; tutti hanno espresso pertanto una valutazione negativa per un comportamento oggettivo imprudente e contrario alla regole del buon padre di famiglia.

La difesa ha obiettato da un lato che una serie di dati non consentiva di prevedere la possibilità della valanga, dall’altro ha insistito, soprattutto in sede di discussione, sul dato dell’esigua distanza del Fa. dal luogo di deposito degli sci del Lo. (5 metri secondo la consulenza svizzera), luogo che in tale contesto costituiva il parametro per definire la “zona di sicurezza”, e che faceva ritenere sostanzialmente non imprudente il comportamento del medesimo imputato. In ordine alla prima osservazione, va rilevato come se effettivamente vi erano dei dati “favorevoli” che si opponevano alla prevedibilità della valanga – quali la precipitazione di neve fresca quattro giorni prima, l’assenza di segni di allarme evidenti, il fatto che il giorno prima fosse stata effettuata un’ascesa – altrettanto vi erano dati precisi, illustrati dai consulenti svizzeri, circa la prevedibilità di una valanga e cioè: a) il bollettino della neve che indicava pericolo marcato, b) una quantità rilevante di neve fresca, c) condizioni di vento, d) il distacco dal Pi., nei giorni precedenti, di una o due valanghe.

In sostanza, come giustamente ha sottolineato il primo giudice in sentenza (p. 20), “i segnali sfavorevoli erano decisamente superiori a quelli favorevoli” e peraltro in ogni caso, al di là delle considerazioni tecniche, il Fa. non poteva non aver notato che solo lui, con i propri tre compagni al seguito, “si stava cimentando in quell’impresa, laddove tutti gli altri sci alpinisti si erano accontentati della salita al colle o comunque di raggiungere la vetta a piedi!”.

Riguardo alla seconda osservazione, va ricordato come molti testi siano stati invitati a segnare in una foto la propria posizione e quella del prevenuto, e tutti abbiano collocato sostanzialmente nello stesso punto quest’ultimo; il Lo. ha a sua volta indicato il luogo del deposito degli sci con la lettera “S”. Come ha giustamente scritto il Gup nella sentenza impugnata, da tale punto il Fa. era sicuramente distante, smentendo in tal modo le conclusioni della consulenza svizzera che partiva dal presupposto non condivisibile di una distanza di 5 m. tra il Fa. ed il deposito degli sci.

Dal filmato in atti, peraltro, il punto da cui inizia la slavina è alquanto distante da quello ove sono depositati gli sci del Lo.; l’imputato era comunque spostato lungo il pendio, mentre il deposito dei sci era sostanzialmente in asse col percorso da fare a piedi.

Ma anche a volere ammettere che la distanza tra i due punti fosse non elevata, a giudizio della Corte tale dato non rileverebbe; ed invero, anche ammettendo che il Lo. potesse aver deposto gli sci in una. zona già non più sicura, ciò non porterebbe ad una diversa conclusione circa la responsabilità del prevenuto; in sostanza, il giudizio sulla responsabilità dovrebbe tenere conto sempre e comunque del nesso di causalità che, come si è visto, va risolto nei termini sopra indicati.

Pertanto è indubbia la colpa del Fa. ed altrettanto indubbio è il fatto che l’evento sia stato diretta conseguenza del comportamento colposo dello stesso. La stessa sentenza di appello cassata, pur avendo assolto l’imputato con la formula “il fatto non costituisce reato” (formula che presuppone il difetto dell’elemento psicologico della fattispecie delittuosa), ha tuttavia in più punti sottolineato la negligenza dell’imputato, ma ha superato il dato sulla base di una diversa valutazione del nesso di causalità.

Venendo infine al trattamento sanzionatorio, rileva la Corte come la pena inflitta in primo grado sia congrua, in considerazione dell’evento cagionato e delle gravissime conseguenze derivate alle parti lese.

In tal senso anche la provvisionale stabilita dal giudice di prime cure va ritenuta adeguata.

Per le superiori considerazioni va confermata integralmente l’impugnata sentenza del Gup del Tribunale di Sondrio.

Al rigetto dell’appello segue la condanna del Fa. al pagamento delle spese di questo grado di giudizio e alla rifusione della spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte

visti gli artt. 592 e 605 c.p.p.

onferma la sentenza emessa dal Gup del Tribunale di Sondrio in data (omissis), appellata dall’imputato Fa.Fa., che condanna al pagamento delle spese del grado, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile per questo grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre IVA e CPA.

Così deciso in Milano il 22 settembre 2009.

Depositata in Cancelleria il 29 settembre 2009.

 

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