Corte di Cassazione penale, Sez. IV, 26 ottobre 2007 (udienza dell’ 11 luglio 2007), n. 39619.

Corte di Cassazione penale, Sez. IV, 26 ottobre 2007 (udienza dell’ 11 luglio 2007), n. 39619.

 

Sci – responsabilità penale – omicidio colposo – gestore dell’area sciabile – fuori pista – posizione di garanzia – responsabilità – sussiste

 

La posizione di garanzia assunta dai responsabili della sicurezza di una società di gestione di un’area sciabile con riferimento alla necessità di adottare le cautele tese a prevenire che un utente dell’area sciabile fuoriesca dall’area sciabile e si inoltri su un tratto di fuori pista percorso regolarmente da altri utenti e di cui è nota la pericolosità non può rinvenirsi nell’asserzione che la gestione di una pista identifichi un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., ma nell’obbligo contrattuale assunto dal gestore con la conclusione del contratto che permette all’utente di fruire dell’area sciabile; ne consegue che gli imputati sono responsabili di omicidio colposo per la morte dello sciatore avvenuta in fuori pista. 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sez. IV. Penale

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Omissis

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il giorno 4 gennaio 2000, vero le or 15,40, la società Colomion, che gestiva gli impianti di risalita in località Melezet di Bardonecchia, segnalava alla Polizia di Stato che nella zona fuoripista, situata tra le piste 26 e 24, si era verificato un incidente; attivata immediatamente la Croce Verde, l’infortunato, il giovane Conenna Francesco, veniva trasportato presso il C.T.O. di Torino dove purtroppo decedeva poi il 13 gennaio 2000 in conseguenza di un gravissimo traumatismo. Le indagini immediatamente avviate consentivano di accertare lo svolgimento dei fatti. La società Colomion gestiva entrambe le piste da sci, la n. 26 e la n. 24, ed aveva predisposto alle stazioni di risalita alcuni cartelli con i quali gli utenti venivano invitati a non lasciare i percorsi delle piste. Il 4 gennaio 2000 il giovane Conenna stava sciando insieme all’amico Caprile Andrea lungo la pista 26, e i due avevano deciso di lasciare quella pista e di ricollegarsi alla pista n. 24 attraverso un varco, senza tuttavia accordarsi su quale passaggio avrebbero utilizzato: ad un certo punto il Conenna, senza preavviso, usciva dalla pista utilizzando un varco di circa 15 metri nella vegetazione che delimitava la pista 26, mentre l’amico Caprile proseguiva la discesa ed usciva dalla pista 26 effettuando l’attraversamento solo circa 200 metri più a valle. Nel tratto fuoripista imboccato dal Conenna, che divideva i due tracciati, scorreva, a circa 20 metri dal bordo della pista 26, un torrente che, ad innevamento normale, risultava totalmente coperto, al punto che molti utenti lo sorpassavano sciando fuori pista. In quel giorno l’innevamento era scarso ed il Conenna, il quale non aveva potuto avvistare prima il letto del torrente perché nascosto dal profilo della neve, era precipitato per una scarpata di circa quattro metri battendo il capo contro le rocce affioranti che delimitavano il corso del torrente. Due giorni prima, esattamente il 2 gennaio, già altri sciatori avevano effettuato lo stesso passaggio ed erano caduti nel torrente. La società Colomion era stata informata delle cadute avvenute il 2 gennaio ed Eugenio Arlaud, dipendente preposto agli impianti di risalita, aveva assunto l’iniziativa, che rientrava nelle sue mansioni, di avvisare l’amministratore delegato Piero Bosticco: era stato quindi posizionato un cartello giallo e nero di pericolo di caduta (disegno di ornino che precipita in una scarpata) sporgente dalla neve per circa un metro. All’esito delle indagini Bosticco Piero ed Arlaud Eugenio (unitamente al Presidente della Colomion Carla Ubertalli poi assolta per non aver commesso il fatto) venivano quindi tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Torino – Sez. di Susa – per rispondere del reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p. perché, in cooperazione colposa tra loro, ciascuno con le responsabilità derivanti dal proprio ruolo all’interno della predetta società “Colomion S.p.A.” (il Bosticco quale amministratore delegato, direttore tecnico amministrativo con incarico di gestire gli impianti, e l’Arlaud quale caposervizio addetto alla sicurezza dell’impianto), per colpa, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, avevano cagionato la morte del Conenna: in particolare, non delimitando in modo netto il bordo della pista n. 26 e non interdicendo agli sciatori il varco di collegamento esistente tra la pista n. 26 e la n. 24, mediante idonea palinatura, apponendo inoltre, anziché un cartello di divieto, un cartello di pericolo, peraltro del tutto inidoneo (in quanto posto a valle e non a monte del pericolo che doveva fronteggiare, nonché scarsamente visibile perché mimetizzato con la vegetazione esistente), non avevano consentito al Conenna di percepire ed evitare il grave pericolo derivante dalla presenza, a circa 20 metri dall’inizio del citato varco di collegamento, del greto di un torrente, non visibile dalla pista, con una scarpatella di circa 4 metri, cosicché il Conenna, dopo aver imboccato il varco, era finito nel letto del torrente sbattendo il capo su una roccia al margine del greto, in tal modo riportando gravissime lesioni da trauma cranio-facciale che ne avevano determinato il decesso qualche giorno dopo (fatto verificatosi il 4 gennaio 2000, decesso avvenuto il 13 gennaio 2000). Il Tribunale predetto condannava quindi il Bosticco e l’Arlaud alla pena di anni uno di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, e motivava il proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi:
a) i due imputati, avuto riguardo alle cariche dagli stessi ricoperte all’interno della società Colomion, erano venuti meno a doveri di sorveglianza in termini di sicurezza dell’impianto;
b) il varco utilizzato dal Conenna era un percorso fuori pista, e cioè una variante annessa alle piste gestite, e notoriamente utilizzato – malgrado i cartelli inibitori – persino dai maestri di sci con i loro scolari;
c) la conoscenza da parte degli imputati di un tale pericolo, connesso alle piste gestite, era assolutamente concreto, e per giunta insidioso per l’utente (non essendo il torrente visibile), ed aveva fatto sorgere a loro carico l’obbligo di impedire l’evento dannoso;
d) la colpa contestata non muoveva da una norma specifica ma dai principi generali in tema di colpa: la responsabilità della Colomion non avrebbe potuto certo estendersi a tutta la montagna, ma in presenza di un pericolo conosciuto ed attuale sussisteva l’obbligo di evitare l’evento;
e) sia i cartelli dì invito a non uscire dalle piste, sia quello specifico di rischio di caduta (apposto dopo le cadute verificatesi il 2 gennaio), non potevano considerarsi idonei ad inibire e prevenire il rischio: i primi perché troppo generici, l’altro perché era di mero pericolo e posto a valle del pericolo stesso;
f) la condotta doverosa sarebbe stata quella di chiudere il passaggio ovvero segnalare la pista come chiusa con un cartello, vigilando sull’osservanza dei divieto;
g) non appariva ravvisabile un’interruzione del nesso causale per la condotta imprudente del Conenna, posto che, proprio per l’abitudine con cui veniva utilizzato dall’utenza quel varco, si era verificata una situazione di affidamento dell’utente Conenna nei confronti dei gestori dell’impianto. A seguito di gravame ritualmente proposto dagli imputati, la Corte d’Appello di Torino confermava l’affermazione di colpevolezza pronunciata nei confronti degli stessi in primo grado, riducendo la pena a mesi sette di reclusione, ciascuno, e confermando le statuizioni civili con condanna degli imputati alle spese sostenute dalle costituite parti civili per il grado di giudizio. Preliminarmente, la Corte territoriale rigettava la richiesta di rinnovazione del dibattimento per l’espletamento di una perizia tecnica, evidenziando l’inutilità di tale incombente istruttorio sul rilievo dell’insussistenza di qualsiasi incertezza sulle modalità dell’incidente; al riguardo, la Corte precisava altresì che le perplessità della difesa degli appellanti circa la specializzazione del C.T. del P.M. sarebbero state fugate dando per accettati i punti di vista dei difensori. La Corte di merito, quindi, nel ricordare la vicenda processuale portata al suo vaglio, quale descritta dal Tribunale, e nel disattendere tutte le doglianze degli appellanti in punto di affermazione di colpevolezza, evidenziava, le seguenti circostanze di fatto:
a) il Conenna era passato dalla pista 24 alla pista 26 attraverso un varco, tecnicamente da ritenersi fuoripista, dove dalla pista superiore si vedeva il tracciato di quella inferiore, ed in un punto in cui le due piste avevano la distanza minima fra loro;
b) il passaggio fra una pista e l’altra era, malgrado i generici inviti della “Colomion” agli utenti di non lasciare la pista, di fatto permesso in altri tratti persino con un’apposita regolamentazione;
c) l’utilizzo di quello specifico collegamento fuori pista, utilizzato dal Conenna, era conosciuto dai gestori dell’impianto, non solo dopo il 2 gennaio per la caduta nel torrente da parte di tre sciatori; ma anche prima per l’abitudine di dare in quella zona lezioni di sci;
d) quel passaggio era altamente pericoloso perché intersecante con un torrente che, coperto in caso di innevamento copioso, era invece scoperto in caso di innevamento scarso;
e) la specifica pericolosità del passaggio, dovuta al torrente, era occulta allo sciatore, in quanto non sempre presente per innevamento ed in quanto non percepibile visivamente nel momento della decisione di abbandonare la pista;
f) il pericolo altissimo e specifico di quei giorni era conosciuto dai gestori per le tre precedenti cadute verificatesi il giorno 2 gennaio;
g) consci di tale alto pericolo, entrambi gli imputati si erano attivati con la collocazione di un segnale di pericolo di caduta in un dirupo: detto segnale, regolamentare per disegno e dimensioni, era stato collocato a due metri dall’uscita dalla pista, alla sua sinistra, e a dieci metri prima del torrente, ed era visibile per chi si accingesse a lasciare la pista utilizzando quel varco. Sotto il profilo strettamente giuridico, la Corte distrettuale cosi argomentava:
1) all’epoca non esisteva alcuna normativa – né statale né regionale – che imponesse particolari obblighi ai gestori degli impianti di attività sciistica, ma gli stessi gestori dovevano essere ben consapevoli di farsi carico della complessiva pericolosità dell’attività svolta, anche al di fuori delle piste battute ma riconnessa al loro utilizzo: in quanto gestore dell’impianto sportivo, la Colomion era titolare di una speciale posizione di garanzia a tutela dell’incolumità degli utenti dell’impianto;
2) non era ravvisabile alcuna colpa per la mancata adeguata segnalazione della delimitazione della pista, sia perché la pista era ben segnalata, sia per la mancanza di nesso di causalità posto che il Conenna era uscito dalla pista consapevolmente;
3) rilevava piuttosto il profilo di colpa di non aver segnalato adeguatamente ai margini della pista lo specifico rischio nascente dall’esistenza del torrente occulto, gravando sugli imputati l’obbligo giuridico derivante dall’attività dagli stessi svolta in quanto generatrice di pericolo: ciò in base alla generale norma in tema di responsabilità dettata dall’art. 2050 del codice civile, relativa ad attività pericolose, che impone al gestore l’onere di adottare tutte le misure idonee ad evitare il danno e trova fondamento nel principio costituzionale di solidarietà sociale: dovendo intendersi per pericolo anche “quello che involge l’altrui imprudente condotta” (fg. 8 sentenza della Corte d’Appello);
4) la sola collocazione del segnale di pericolo di caduta non poteva ritenersi misura idonea a ritenere assolto l’obbligo di garanzia degli imputati; il gestore avrebbe dovuto farsi carico del comportamento dello sciatore medio che, specie nel caso di utenza giovane, è connotato da un certo tasso di imprudenza, “qui tragicamente rappresentato dalla decisione con cui Conenna usci di pista, e che lo portò a non fermarsi e dunque a non vedere il segnale di pericolo” (così testualmente a pag. 9 della sentenza d’appello);
5) solo una evidente e fitta palinatura (meglio ancora una transennatura con apposite strisce zebrate) avrebbe assolto in maniera adeguata all’obbligo di segnalazione del pericolo; detta misura sarebbe stata agevolmente approntabile dal gestore, e la sua omissione si era posta in nesso causale certo con l’evento: il Conenna, attraverso i generici e contraddittori inviti a non lasciare la pista e ad utilizzare solo alcune connessioni fra le due piste, poteva dirsi sufficientemente avvisato dei generici pericoli riconnessi al fuori pista (presenza di ostacoli, asperità della neve, possibili smottamenti) ma non della presenza di un torrente, occulto alla sua vista, e con uno strapiombo di quattro metri;
6) se avesse ritrovato a sbarrargli il passo del varco un ostacolo fisso, il Conenna avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi, così vedendo il segnale esplicito di pericolo affisso, misura da sola inidonea ad arrestare la sua condotta.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, con atti separati, Bosticco Piero e Arlaud Eugenio. Le doglianze dei ricorrenti possono sintetizzarsi come segue: 
A) Ricorso Bosticco – 1) Con un primo motivo si denuncia l’irritualità della notifica dell’avviso di deposito dell’estratto contumaciale ex art. 548 comma 3 c.p.p.; 2-3) Per quanto attiene al primo profilo del secondo motivo di ricorso, con esso si lamenta una violazione dell’art. 606 primo comma lett. d) c.p.p. per non avere, il Giudice di appello, disposto l’effettuazione di una perizia; con il secondo profilo del secondo motivo e con il terzo motivo di ricorso viene denunciato il vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett. e) c.p.p. da due diversi punti di vista: da un lato, si assume che “.., la ricostruzione effettuata dalla sentenza impugnata, in realtà, non corrisponde a quella effettuata dai consulenti tecnici e dai testimoni” sicché si sarebbe di fronte ad “…errori presenti nella ricostruzione del fatto”(cfr. foll. 4-6); dall’altro, si afferma che “…la sentenza impugnata sarebbe priva dei necessari passaggi logici e trascurerebbe del tutto atti del processo” che vengono indicati in ricorso e, quindi, allegati allo stesso (si tratta di consulenze tecniche e copie di verbali di udienza); atti che “se tenuti in considerazione, avrebbero portato all’assoluzione del Bosticco”, tanto che il ricorrente parla della sussistenza, nel caso di specie, di un vero e proprio “travisamento del fatto”(fog. 7-8 del ricorso); 4) Con il quarto motivo di ricorso si sostiene che la Corte di merito avrebbe reso motivazione illogica e contraddittoria laddove, dopo aver ritenuto corretta la segnalazione della delimitazione della pista, ha poi affermato che sarebbe stato necessario porre un ostacolo fisso al passo del varco; 
5) Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la condanna nei suoi confronti sarebbe stata pronunciata con riferimento ad un fatto nuovo mai contestato;
6) Il sesto motivo di ricorso è dedicato alla critica mossa alla sentenza impugnata laddove la Corte di merito ha ritenuto di individuare nell’art. 2050 del codice civile la fonte normativa dell’obbligo giuridico la cui inosservanza avrebbe integrato la colpa omissiva oggetto della contestazione; ad avviso del ricorrente il riferimento a detta norma risulterebbe assolutamente non pertinente posto che non sarebbe ravvisabile, nell’attività di gestione di impianti sciistici, alcuna connotazione dì pericolosità; 7) Con il settimo (ed ultimo) motivo di doglianza si assume che il Giudice di secondo grado avrebbe “…effettuato in maniera superficiale e carente l’operazione del giudizio controfattuale”, laddove la stessa Corte di merito ha osservato che, se la vittima avesse trovato a sbarrargli il passo del varco un ostacolo fisico, egli avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi; in sostanza, ad avviso del ricorrente, non potrebbe escludersi, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il Conenna, tenuto conto della volontarietà della sua condotta di uscire fuori di pista, si sarebbe comportato in egual maniera pur in presenza di una diversa segnalazione di pericolo effettuata con sbarramento ovvero interdizione del varco;
 B) Ricorso Arlaud – Il ricorrente Arlaud, pur con argomentazioni meno diffuse ed articolate rispetto a quelle addotte a sostegno del ricorso del Bosticco, ripropone sostanzialmente le censure di quest’ultimo, sotto un duplice profilo: 1) non sussisterebbe posizione di garanzia per l’attività di chi va fuori pista; 2) l’incidente in questione non potrebbe considerarsi conseguenza della condotta (attiva od omissiva) degli imputati, ma sarebbe stato determinato dal comportamento del Conenna, il quale, pur conoscendo compiutamente la stato dei luoghi essendo un abituale frequentatore delle piste di Bardonecchia, avrebbe coscientemente violato un divieto derivante dalla presenza del cartello di pericolo portandosi volontariamente fuori pista; 3) nelle conclusioni del suo ricorso, l’Arlauld chiede poi la sospensione dell’esecuzione della condanna civile ai sensi dell’art. 612 c.p.p., assumendo che l’esecuzione della condanna civile potrebbe comportare un danno grave ed irreparabile essendo egli un operaio addetto agli impianti e come tale stipendiato. Resiste con memoria ritualmente depositata la parte civile Pegoraro Liliana la quale, in particolare, evidenzia l’inutilizzabilità della consulenza tecnica dell’ing. Francesco Belmondo datata giugno 2000, allegata al ricorso del Bosticco, in quanto mai prodotta in precedenza; in tale memoria si precisa che nel corso del dibattimento risulterebbe acquisita una consulenza Belmondo datata 2 luglio 2003 il cui contenuto differirebbe in parte rispetto a quello della consulenza allegata al ricorso.


MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi vanno rigettati per le ragioni di seguito indicate.
Per maggiore chiarezza espositiva, si ritiene opportuno esaminare singolarmente i motivi dedotti dai due ricorrenti.

Ricorso Bosticco -
A) In ordine alla prima censura è sufficiente osservare che, a tutto voler concedere, resta, ad ogni buon conto, che nel caso di specie, essendo stato ritualmente interposto, dall’imputato, il ricorso per cassazione, deve trovare applicazione il principio dì diritto enunciato (e più volte ribadito) da questa Corte secondo cui nell’ipotesi in cui l’imputato abbia regolarmente presentato nei termini l’impugnazione, l’eventuale nullità della notifica dell’estratto contumaciale deve ritenersi sanata, essendosi l’interessato avvalso della facoltà al cui esercizio l’atto (affetto da nullità) era preordinato (cosi, “ex plurimis”, Sez. 5, n. 3349 del 16/03/2000, Rv. 215586, imputato Palmegiani ed altri).
B) Per quanto attiene al primo profilo del secondo motivo di ricorso, va ribadito anche in questa circostanza quanto già ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità, e cioè che la perizia è mezzo di prova neutro ed è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze: la sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi dell’ari 606 lett d) cod.proc.pen. e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione – come nella concreta fattispecie, avendo i giudici del merito dato conto del proprio convincimento come sopra ricordato (nella parte relativa allo “svolgimento del processo) – è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’ari 606 lett e) cod.proc.pen. (cfr., al riguardo, Sez. 5, n. 12027 del 06/04/1999, Rv. 214873, imputato Mandalà). La mancata assunzione di una prova decisiva – quale motivo di impugnazione per cassazione -può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495, secondo comma, cod. proc. pen.. Il diritto alla controprova riconosciuto all’imputato dall’art. 495 comma secondo cod. proc. pen. non puo’ avere ad oggetto l’espletamento di una perizia, mezzo di prova non classificabile ne’ a carico ne’ a discarico dell’accusato e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, e’ insindacabile in sede di legittimita’. Conseguentemente deve negarsi che l’accertamento peritale possa ricondursi al concetto di prova decisiva la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 lett. d) cod. proc. pen. ; infatti, sussiste il vizio di mancata ammissione di prova decisiva, di cui all’art. 606 comma primo lett. d) c.p.p., allorquando l’elemento probatorio pretermesso di per sè abbia un contenuto tale da risolvere il “thema decidendum”; dunque, non puo’ definirsi decisiva una prova abbisognevole, come nel caso di specie, di comparazione con altri elementi acquisiti in processo, (non per negarne la efficacia dimostrativa, bensi’ per comportarne un confronto dialettico al fine di effettuare una ulteriore valutazione argomentativa per quanto oggetto del giudizio): in tal caso, infatti, viene meno il carattere di “decisivita’ “. A ciò aggiungasi che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, sussiste il vizio di mancata ammissione di prova decisiva che legittima il ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado e di cui all’art. 606 comma primo lett. d) c.p.p., solo ín caso di violazione del diritto alla prova. Orbene, nel giudizio di appello le parti hanno il diritto alla prova ad esse attribuito dagli artt. 190 e 495 cod.proc.pen. solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronunzia di primo grado (art. 495, comma 2, cpp), così come espressamente dispone l’art. 603, comma 2, c.p.p.; ne consegue che, se non ricorre tale ipotesi (e dunque nella prospettiva dell’ art. 603 comma primo c.p.p.), la mancata assunzione della prova e’ censurabile in cassazione solo per mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione (art. 606 lett. e) e. p. p.) del provvedimento che rigetta la relativa richiesta, e non anche ai sensi dell’art. 606, lett. d), cod. proc. pen.. Nel caso di specie il Giudice ha ritenuto superflua o irrilevante, ex art. 190 comma 1 cpp, non una prova oggetto di diritto ex art. 495 comma 2 cpp, sicché la motivazione della Corte di merito appare del tutto conforme ai reiterati princìpi enunciati da questa Corte con riferimento all’art. 603 c.p.p. ed ai contenuti dell’obbligo di motivazione del Giudice di appello (Sez. 5, n. 6924 del 20/02/2001, RV. 218279, IMP. Delfino). Nel giudizio d’appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è istituto eccezionale al quale può farsi ricorso solo quando il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. AI di fuori del caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, le parti non hanno il diritto alla prova che riconoscono loro gli artt. 190 e 495 c.p.p. Fuori di tali ipotesi la mancata assunzione della prova non è mai censurabile in cassazione a norma dell’art. 606 lett. d) c.p.p., bensì solo ai sensi della lett. e) di tale ultimo articolo. (Cass., Sez. 5, 21 ottobre 1996, Bruzzise, RV 207067; vedi anche Cass., Sez 6, 30 aprile 2003, Gervasi, RV 227706, secondo cui “con riguardo al giudizio di appello, la mancata assunzione di una prova decisiva può costituire motivo di ricorso in cassazione ai sensi dell’ari 606 lett. d) c.p.p. solo quando si tratti di prove soprawenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse, secondo il disposto dell’art. 603 comma 2 c.p.p., sui presupposti stabiliti al primo comma dell’art. 495 del codice di rito. Negli altri casi la decisione istruttoria del giudice di appello è censurabile, ai sensi dell’art. 606 lett. e) c.p.p., sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione della sentenza, come risultante dal testo del provvedimento impugnato”.
C) Possono ora esaminarsi congiuntamente il secondo profilo del secondo motivo di ricorso ed il terzo motivo di censura, posto che con entrambi viene denunciato vizio motivazionale con riferimento ad asseriti errori nella ricostruzione del fatto da parte della Corte territoriale.
Va innanzi tutto sottolineato che le deduzioni del ricorrente, più che denunciare plateali errori di lettura (da parte del giudice “a quo”) di inequivoche rappresentazioni di circostanze di fatto, si risolvono: 1) in primo luogo: a) nella prospettazione, con rilevanti profili di genericità, di punti di vista semplicemente alternativi a quelli fatti propri, nella lettura del fatto, dalla Corte di merito (ad esempio, in ordine al carattere “minimo” o non “minimo” della distanza tra le piste 24 e 26); b) nella prospettazione apodittica di opinioni generiche del ricorrente (ad esempio, in ordine alla visibilità “da grande distanza” del cd. segnale di pericolo od alla ragione delle cadute verificatesi, nel luogo ove poi awenne l’evento letale, nei giorni precedenti lo stesso); c) nella reiterata prospettazione, del pari tautologica, dell’opinione dei consulenti della difesa (in ordine, ad esempio, alla visibilità del torrente per chi, come la vittima, provenisse dalla pista a monte); 2) in secondo luogo, nella prospettazione, in termini ancora una volta del tutto generici, di un “travisamento del fatto” ad opera della Corte di merito. Orbene: a fronte di motivi di ricorso così formulati, compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte di merito, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata. In realtà, le deduzioni del ricorrente non risultano in sintonia con il senso dell’indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. Moschetti ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Orbene, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell’art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come modificato dalla legge 46/2006, occorre allora tener conto che:1) la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso: semmai, può parlarsi di “travisamento della prova”, che, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito o difettosa per commissione o difettosa per omissione, a seconda che il Giudice di merito, cioè, incorra in una utilizzazione di un’informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli). In sostanza, la riforma della legge n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. – nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente “specificamente indicati” – detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 lett. c) c.p.p. (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere “l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”). Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente – accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 c.p.p – anche un peculiare onere di inequivoca “individuazione” e di specifica “rappresentazione” degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice et similia (cfr. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l’impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all’esame diretto degli atti (in tal senso, “ex plurimis”, Sez. 1 n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte della decisione impugnata, e di quella (integrativa) resa all’esito del primo grado di giudizio, a tutti i temi toccati dalla difesa del Bosticco. Ma v’è di più, posto che non era sufficiente: a) che gli atti del processo invocati dal ricorrente fossero semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilità; b) né che tali atti fossero astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorreva invece che gli “atti del processo”, presi in considerazione dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione, fossero “decisivi”, ossia – e giova qui ripetere quanto si è avuto già modo di precisare innanzi – autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticolasse l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determinasse al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.
In definitiva: la nuova formulazione dell’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc, pen., introdotta dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del “testo del provvedimento impugnato”, anche di “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri).

Tenendo conto di tutti i princìpi testè ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure appena esaminate non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale il ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua perplessa visione alternativa del fatto facendo riferimento all’art. 606 lett. e) c.p.p.: pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, il ricorrente, in realtà, ha piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.
D) A questo punto si ritiene opportuno anticipare l’esame del quinto motivo di ricorso – con il quale è stata lamentata la violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza – onde poter poi procedere, successivamente, alla trattazione congiunta degli ulteriori motivi di censura (quarto, sesto e settimo) essendo gli stessi intimamente connessi.
Va rilevata la manifesta infondatezza di detta doglianza, muovendo innanzi tutto dal carattere articolato della contestazione contenuta nel capo d’imputazione, ove, tra le altre condotte contestate, vi è esattamente quella ritenuta, infine, decisiva dalla Corte di merito, consistente nell’avere, gli imputati, omesso di adottare adeguate cautele per interdire il passaggio attraverso il varco tra la pista n. 26 e quella n. 24, predisponendo invece solo una segnalazione di pericolo inidonea a consentire alla vittima di percepire ed evitare il grave pericolo derivante dalla presenza, a circa 20 metri dall’inizio del citato varco di collegamento, del greto di un torrente, non visibile dalla pista con una scarpatella di circa 4 metri. Giova ricordare che, in materia, questa Corte ha avuto più volte modo di pronunciarsi (anche a Sezioni Unite: n. 16 del 22 ottobre 2006, ric. Di Francesco) con plurime decisioni con le quali è stato costantemente ribadito l’indirizzo interpretativo che ben può essere sintetizzato nel principio di diritto così espresso: “La mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti radicale difformità tra i due dati, in modo che possa derivarne assoluta incertezza sull’oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei diritti della difesa. Pertanto, l’indagine volta ad accertare la eventuale sussistenza di tale violazione non può esaurirsi in un’analisi comparativa, meramente letterale, tra imputazione e sentenza, dal momento che il contrasto non sarebbe ravvisabile se l’imputato: attraverso l’iter del processo, fosse comunque venuto in concreto a trovarsi in condizione di difendersi in ordine all’oggetto della contestazione” (cfr. Sez. 5, n. 7583 del 11/06/1999, Rv. 213645, imp. Grossi L ed altri).
Dunque, nel caso in esame, avuto riguardo alla formulazione della contestazione ed alle ragioni che i giudici del merito hanno posto a base della pronuncia di condanna, non può certo dirsi che il principio di correlazione tra reato contestato e fatto ritenuto in sentenza sia stato violato, giacché non è a discutersi di assoluta incompatibilità tra i due dati, di modo che la pronuncia del giudice di merito debba ritenersi relativa ad un fatto del tutto nuovo rispetto alla ipotesi di accusa: non vi è dubbio che, nel caso di specie, non ricorre tale violazione posto che tra i due fatti sussiste omogeneità in un nesso di specificazione. Nella concreta fattispecie, l’imputazione è stata, in sentenza, precisata o integrata, con le risultanze degli atti acquisiti al processo, alla cui assunzione ha partecipato la difesa dell’imputato, e tali integrazioni non hanno certo inciso sugli elementi costitutivi del reato formalmente contestato: l’imputato stesso, pertanto, è venuto a trovarsi nella condizione di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (al riguardo, cfr., “ex plurimis”, Sez. 4, Sentenza n. 16900 del 2004, Rv. 228042, Imp. Caffaz ed altri).
Conclusivamente, deve escludersi che, nel caso in esame, possa parlarsi di mutamento del fatto, inteso come una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassumeva l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto della imputazione tale da determinare un reale pregiudizio dei diritti della difesa; dal tenore della formulazione della doglianza in esame, si rileva che il ricorrente ha inteso richiedere a questa Corte un’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto attraverso un mero confronto letterale tra contestazione e sentenza laddove il tema è, piuttosto, quello delle garanzie difensive: e, in materia di garanzie difensive, come detto, la violazione in argomento, nel caso di specie, non sussiste, giacché l’imputato, attraverso l’iter del processo, è comunque venuto a trovarsi nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all’oggetto della imputazione.
E) Quarto, sesto e settimo motivo di ricorso.
Va preliminarmente evidenziata la correttezza della doglianza oggetto del 60 motivo di ricorso, nella parte in cui il Bosticco lamenta che la Corte di merito, al fine di individuare l’obbligo giuridico gravante sugli imputati, obbligo al quale andava ancorata la colpa omissiva, ha ritenuto che tale obbligo andasse individuato nella “generalissima norma dettata dal codice civile in tema di responsabilità dall’art. 2050 relativo ad attività pericolose che impone al gestore l’onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” (per come si legge testualmente a pagina 8 dell’impugnata sentenza). La Corte territoriale, nell’enunciare le considerazioni in diritto formulate a sostegno delle sue conclusioni, afferma il principio per il quale “la colpa omissiva deve ancorarsi ad un obbligo giuridico che non è necessariamente vincolato all’esistenza di una norma o regola dettata da fonte pubblicistica o privatistica ma può derivare anche dall’attività propria dell’obbligato in quanto generatrice di pericolo”; principio, di per sé, certamente condivisibile e più volte affermato dalla giurisprudenza civile di questa Corte (“ex plurimis”, Sez. 3 Civ., n. 5341 del 29/05/1998, Rv. 515946, Casalino contro Ferrua: nella fattispecie è stato ribadito che costituiscono attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 cod. civ. non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che per la loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperate comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva): con l’ulteriore precisazione che lo stabilire se in concreto un’attività sia da considerare pericolosa costituisce compito del giudice di merito la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata.
Ciò premesso, rileva il Collegio che l’applicazione di detto (pur condivisibile) principio, risulta affermata dalla Corte distrettuale in modo apodittico, giacché la medesima Corte, nell’ancorare all’art. 2050 c.c la responsabilità del Bosticco e dell’Arlaud, non ha fornito alcuna indicazione concreta sul perché dovesse considerarsi pericolosa l’attività di costoro, vale a dire, per il Bosticco, la gestione degli impianti di risalita del comprensorio sciistico Melezet di Bardonecchia, e, per l’Arlaud, nella sua veste di capo servizio, la gestione della sicurezza degli impianti citati. Così come posta, l’affermazione dei giudici del merito risulta, dunque, in contrasto con quanto precisato nella giurisprudenza civile di questa Corte, ed in particolare con il principio di diritto secondo cui non costituisce attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., la gestione di un impianto sciistico; e ciò alla stregua di una doppia considerazione che risulta del tutto pertinente in relazione al caso in esame: a) in primo luogo, l’accertamento della potenzialità lesiva di una attività – che si traduce in un apprezzamento di fatto strettamente riservato al giudice del merito – va compiuto “ex ante” e cioè senza riferimento al fatto dannoso concretamente verificatosi, ma con riguardo alle ordinarie modalità di esercizio dell’attività considerata; b) in secondo luogo, ciò che è notoriamente pericolosa è l’attività sciistica in sé, ossia la pratica sportiva dello sci, che è, tuttavia, attività ben diversa e distinta da quella di gestione dei relativi impianti (al riguardo, cfr. Sez. 3 Civ., n. 6113 del 12/05/2000, Rv. 536456, Tomaselli contro Panarotta).
Detto questo, la correttezza del motivo di doglianza ora esaminato e la non condivisibilità della considerazione della Corte circa l’individuazione della fonte della responsabilità degli imputati nell’art. 2050 del codice civile, non scalfiscono, tuttavia, la sostanziale fondatezza della decisione impugnata, anche con riferimento al quarto e settimo motivo di ricorso, entrambi riconducibili al torna del nesso di causalità.
E vero, infatti, che la Corte di merito non del tutto congruamente evoca anche la legge 363 del 24.12.2003, peraltro successiva al fatto, e stabilisce un cd. contemperamento tra la stessa legge e l’art. 2050 c.c. (cfr. fg. 9, punto 4, della sentenza impugnata); ma è altresì vero che la stessa Corte di merito, subito dopo (punto 5 di fol. 9), individua – prescindendo del tutto dalle affermazioni in punto di principio appena ricordate, e come detto non condivisibili – quali fossero i contenuti dell’obbligo gravante sugli imputati (segnalazione del pericolo mediante più fitta patinatura, o, meglio ancora, con una transennatura con apposite strisce zebrate) con conseguente identificazione, in capo a costoro, di una posizione di garanzia; obbligo la cui violazione ha comportato l’insorgenza di una responsabilità in ordine alla quale la Corte di merito fornisce adeguata motivazione in termini che riconducono detta responsabilità, concretamente individuata, ad una responsabilità contrattuale, diversa da quella extracontrattuale di cui all’art. 2050 c.c., in sintonia con l’indirizzo interpretativo delle Sezioni civili di questa Corte: basti ricordare la sentenza n. 2563 del 6 febbraio 2002, della Seconda Sez. Civile (RV. 594375, Carbognin contro Paganella) con la quale è stato precisato che il contratto di “ski-pass” – del tutto identico a quello di cui al caso di specie, contratto che consente allo sciatore l’accesso, dietro corrispettivo, ad un complesso sciistico al fine di utilizzarlo liberamente ed illimitatamente per il tempo convenzionalmente stabilito – presenta i caratteri propri di un contratto atipico nella misura in cui il gestore dell’impianto assume anche, come di regola, il ruolo di gestore delle piste servite dall’impianto di risalita, con derivante obbligo a suo carico della manutenzione in sicurezza della pista medesima e la possibilità che lo stesso gestore sia chiamato a rispondere dei danni prodotti ai contraenti determinati da una cattiva gestione (manutenzione) della pista, sulla scorta delle norme che governano la responsabilità contrattuale per inadempimento; sempre che l’evento dannoso sia eziologicamente dipendente dalla suddetta violazione e non, invece, ascrivibile al caso fortuito – art. 2051 c.c. -riconducibile ad un fatto esterno al sinallagma contrattuale. Orbene, in maniera corretta, e sostanzialmente coerente rispetto all’orientamento interpretativo appena ricordato, la Corte distrettuale ha affermato che: 1) non sarebbe ravvisabile colpa a carico degli imputati per non avere costoro disposto che fosse adeguatamente segnalata la delimitazione della pista, atteso che la vittima consapevolmente uscì dalla pista stessa; 2) tuttavia a carico degli imputati era configurabile un obbligo di informare lo sciatore – con adeguate, incisive e specifiche segnalazioni – prima che lo sciatore stesso lasciasse la pista battuta, del particolare e grave rischio cui egli andava incontro abbandonando la pista medesima: proprio a questo obbligo sarebbero venuti meno gli imputati, con conseguente insorgenza di responsabilità connessa alla posizione di garanzia. Sul punto, la motivazione della Corte di merito risulta correttamente articolata laddove è stato evidenziato che quel passaggio fuori pista era altamente pericoloso – ed ancor più in caso di scarso innevamento, come nella concreta fattispecie – in particolare per l’intersezione con un torrente non percepibile visivamente nel momento in cui si decideva di abbandonare la pista; dunque, un rischio concretante, secondo la definizione della giurisprudenza di questa Corte, “insidia o trabocchetto”. La pericolosità di quel passaggio era ben nota agli imputati, per tutte le ragioni esposte nella decisione impugnata, in specie in conseguenza degli incidenti già verificatisi due giorni prima del tragico evento; d’altra parte gli stessi imputati avevano ritenuto essere proprio obbligo, in quanto afferente, comunque, alla gestione della pista, segnalare (con indicazioni peraltro inadeguate in relazione alla rilevante gravità ed elevata prevedibilità del pericolo) la situazione di rischio che poteva determinarsi per i fruitori della pista stessa, attesa la particolare conformazione dei luoghi: conformazione che poteva lasciare intendere che quel fuori pista, pericoloso in sé, costituisse, invece, una c.d. variante.
Orbene, la Corte di merito ha puntualmente evidenziato che le segnalazioni di pericolo adottate furono del tutto inidonee in relazione alla pericolosità della situazione concreta: probabilmente adeguate rispetto ad un generico pericolo di fuori pista, ma del tutto incongrue a fronte della peculiarità della situazione concreta, caratterizzata, per chi abbandonasse la pista, dalla presenza di un torrente, occultato alla vista. Trattasi di una conclusione che si pone anche in sintonia con quanto affermato da questa stessa Sezione (Sez. 4, n. 27861 del 20/04/2004, Rv. 229073, Imputato: Marchelli) in relazione a fattispecie in cui sono ravvisabili affinità con il caso in esame: con tale decisione è stato ritenuto sussistente, in capo al gestore di impianti sciistici, l’obbligo di porre in essere ogni cautela per prevenire i pericoli anche esterni alla pista ai quali lo sciatore può andare incontro in caso di uscita dalla pista medesima: pur se, nel caso oggetto della decisione ora ricordata, la situazione dei luoghi poteva rendere probabile, per conformazione naturale del percorso, siffatta evenienza accidentale (nella fattispecie, la pista, battuta fino all’orlo, rendeva probabile, in mancanza di reti di protezione, lo scivolamento per il declivio al lato in caso di perdita di controllo da parte dello sciatore). Certo, il caso appena evocato e quello in esame non sono sovrapponibili, presentando, come detto, solo talune affinità; ma con la citata sentenza Marchelli sono stati affermati principi di diritto che risultano ben applicabili anche in relazione al caso in esame:
1) quanto alla fonte dell’obbligo giuridico, nel caso in esame sussisteva l’obbligo di garanzia a carico degli imputati, nei termini correttamente argomentati dalla Corte di merito, atteso che l’obbligazione del gestore degli impianti di risalita ricomprende prestazioni accessorie, costituenti un pacchetto di servizi che trascendono il mero trasporto da valle a monte e riguardano l’intera attività dell’utente, quali la messa a disposizione di piste dotate delle necessarie misure di sicurezza;
2) quanto all’estensione di tale obbligo, deve ritenersi che, nella concreta fattispecie, correttamente la Corte di merito abbia argomentato nel senso per il quale il pericolo da prevenire, oggetto della posizione di garanzia, non fosse solo quello interno alla pista: ed invero l’obbligo di protezione – che è proiezione della posizione di garanzia – riguardava anche i pericoli atipici, cioè quelli che lo sciatore non si attende di trovare, diversi quindi da quelli connaturati a quel quid di pericolosità insito nell’attività; certo, deve escludersi che un tale obbligo di protezione si possa dilatare sino a comprendervi i cd. pericoli esterni, ma, nondimeno, il gestore, nel caso in esame, doveva prevenire quei pericoli fisicamente esterni alle piste, ma cui si poteva andare incontro in caso di uscita di pista, giacché la situazione naturale dei luoghi rendeva altamente probabile, per le ragioni dinanzi citate, che sì fuoriuscisse dalla pista;
3) quanto alla colpa, alla stregua di tutto quanto fin qui detto, appare indubbia la sussistenza dei profili di colpa riconducibili alla condotta omissiva degli imputati;
4) quanto, ancora, al rapporto di causalità, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che, nel caso di specie, il pericolo esterno alla pista, nel senso sopra precisato, non fosse estraneo alla posizione di garanzia, con la conseguente necessità di congrue protezioni e segnalazioni al bordo della pista stessa: sul punto, basta annotare che la qualificazione dell’elemento soggettivo del reato come colpa ha la sua essenza negli elementi della prevedibilità e prevenibilità, mentre gli stessi aspetti hanno rilievo quale patrimonio soggettivo del leso in ordine alla sussistenza dell’insidia o del trabocchetto, e non può dirsi illogica la motivazione che ha ravvisato, nel caso di specie, un’insidia nella non visibilità dello strapiombo di 4 metri posto al limitare della pista.
Privo di fondamento è l’assunto del ricorrente (posto specificamente a base del settimo motivo di ricorso) secondo cui il Giudice di secondo grado avrebbe effettuato in maniera superficiale e carente l’operazione del giudizio controfattuale, laddove la stessa Corte di merito ha osservato che, se la vittima “avesse ritrovato a sbarrargli il passo del varco un ostacolo fisico, egli avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi”.
Certo, il comportamento del Conenna, come ha osservato la Corte di merito, fu consapevole e volontario. Ma tanto non basta ad ipotizzare l’intervenuta interruzione del nesso di causalità, né possono condividersi le considerazioni in punto di dubbio, che il ricorrente vorrebbe insinuare, in ordine a quale sarebbe stato il comportamento della vittima ove avesse trovato uno sbarramento ad impedirgli il passo, vale a dire il varcare ugualmente il bordo della pista. Ed invero il punto dirimente del tema non è questo, e non ha rilievo alcuno il richiamo, quale espresso dal ricorrente, ad un asserito “ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del gestore”. In realtà, proprio la considerazione di tale condotta omissiva vale ad escludere la fondatezza della prospettazione oggetto del motivo di ricorso in esame, ove si abbia mente al consolidato orientamento di questa Corte in tema di causalità omissiva, secondo cui l’omissione ha valore assorbente rispetto al comportamento della vittima, la cui condotta può, infatti, assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano state osservate le prescrizioni di loro competenza. In altri termini, la responsabilità del destinatario della posizione di garanzia non può essere esclusa, per causa soprawenuta, una volta riscontrato l’inadempimento dell’obbligo, allorché il comportamento della vittima, che pure abbia dato occasione all’evento, sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.
Il ricorso del Bosticco deve dunque essere rigettato.

RICORSO ARLAUD -
A) Tutte le considerazioni svolte nell’esaminare il ricorso del Bosticco valgono anche per i motivi addotti, peraltro anche con profili di genericità, dall’Arlaud relativamente all’affermazione di colpevolezza: dunque, onde evitare superflue ripetizioni, devono intendersi qui richiamate, con riferimento alle doglianze dell’Arlaud quali sopra ricordate (nella parte relativa allo “svolgimento del processo), le argomentazioni svolte nell’esaminare la posizione del Bosticco.
B) Nè può trovare accoglimento la richiesta con la quale, nelle conclusioni del suo ricorso, l’Arlaud domanda annullarsi la decisione impugnata anche in punto di “sospensione dell’esecuzione della condanna civile nei propri confronti” ai sensi dell’art. 612 c.p.p.” Invero, il ricorrente sottopone a questa Corte la questione della sospensione dell’esecuzione della condanna civile ai sensi dell’art. 612 c.p.p. semplicemente assumendo che danno grave ed irreparabile discenderebbe dall’essere egli un operaio addetto agli impianti, e come tale stipendiato. Quanto alla ritualità della richiesta formulata dall’Arlaud, si rinviene in giurisprudenza un contrasto interpretativo: ed invero, in alcuni casi è stato affermato che in tema di sospensione dell’esecuzione della condanna civile da parte della cassazione, per la relativa pronunzia da adottarsi con ordinanza in camera di consiglio, si esige una richiesta di carattere interlocutorio, da introdursi “medio tempore”, in attesa della decisione del ricorso (Sez. 5, Sentenza n. 1471 del 12/02/1992, Rv. 189083, imp. Benevento); altre volte è stato detto che in tema di sospensione dell’esecuzione della condanna civile, da parte della cassazione, la richiesta può essere contenuta nel ricorso stesso, che è il primo atto di contestazione delle statuizioni, anche civili, assunte in appello, non essendo necessaria un’apposita ed autonoma istanza interlocutoria di sospensione (Sez. 4, Sentenza n. 42030 del 06/11/2006, Rv. 235396, Landucci).
Ma, anche ad accedere al secondo dei due orientamenti appena ricordati, deve comunque trovare applicazione il consolidato principio secondo cui il danno grave ed irreparabile che può derivare dalla esecuzione della condanna civile, in considerazione del quale la Cassazione può sospendere tale esecuzione, deve essere inteso nel senso di pregiudizio eccessivo che il debitore subisce, ossia tale da risolversi nella distruzione o disintegrazione del bene controverso (cosi, “ex plurimis”, Sez. 1, Sentenza n. 4380 del 31/08/1995, Rv. 203183, imp. Mascaro).

Orbene, alla stregua di tale principio – ed a prescindere dalla possibilità o meno di riferire il concetto di irreparabilità del danno al pagamento di una somma di denaro, questione oggetto di decisioni contrastanti nella giurisprudenza di questa Corte (in senso affermativo Sez. 6, n. 2992 del 28/11/1996, Rv. 206370, imp. Surace A; in senso negativo Sez. 1 ^, 26/9/1995 n. 4380, Mascaro, RV 203183) – risulta assorbente e tranciante la genericità della doglianza come formulata dall’Arlaud il quale, infatti, non ha fornito alcuna concreta indicazione in ordine agli elementi e termini necessari per la valutazione della gravità del danno, al di là della generica allegazione della qualità di stipendiato; nulla, in particolare, è stato allegato sulla consistenza del patrimonio dell’obbligato. Di tal che, anche da tale punto di vista il ricorso dell’Arlaud non può trovare accoglimento.
Al rigetto dei ricorsi segue, per legge, la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
I ricorrenti stessi vanno altresì condannati, in solido, al pagamento delle spese sostenute per il presente grado di giudizio dalla parte civile Pegoraro Liliana (per l’altra parte civile Conenna Carlo, ritualmente presente nei giudizi di merito, nessuno è comparso all’odierna udienza), che si liquidano in complessivi euro 2.000,00 (duemila), oltre spese forfettarie nella misura del 12,50%, I.V.A. e C.P.A..


P. Q. M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido, al agamento delle spese processuali. Li condanna inoltre, in solido, alla rifusione i favore della parte civile Pegoraro Liliana delle spese che liquida in complessiv’ € 2.000,0 oltre spese forfettarie nella misura del 12,50%, I.V.A. e C.P.A..
 
Roma, 11 luglio 2007

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